martedì 21 aprile 2020

Un Giorno di Pasqua

Un Giorno di Pasqua

“Buona Pasqua”.
L’ho sentito ripetere almeno cento volte, dalle guardie che smontano dal turno alle guardie che prendono il loro posto.
Certo, per i primi è proprio il caso di dirlo, buona Pasqua, loro stanno andando a casa. Ma come possono augurare buona Pasqua alle guardie che invece rimangono qua? Loro passeranno la Pasqua chiusi qua dentro, come noi.
Questo giorno, che qualcuno definisce “santo”, per loro come per noi sarà un giorno come tutti gli altri. Ma che colpa hanno loro? Siamo noi i carcerati, i relitti della società civile, coloro che non possono avere una vita nemmeno il giorno di Pasqua. Loro, le guardie, non hanno fatto niente di male. L’unica colpa che si può imputare loro è quella di avere scelto il mestiere sbagliato: la guardia carceraria.
Ma non è questo il vero motivo per cui ho deciso di scrivere, non è una denuncia contro le pessime condizioni di lavoro di chi ci fa la guardia. Voglio confidare a questo piccolo foglio di carta il vero motivo per cui sono qua dentro.
Anche al processo, in cui mi giudicarono colpevole, non dissi mai il vero motivo del mio terribile delitto. Non fu la vergogna a togliermi le parole, o tutti quegli sguardi pieni d’odio che sentivo rivolti su di me. No, non fu tutto questo a impedirmi di snocciolare il motivo. La ragione per cui non risposi alla domanda sul perché di tanta crudeltà è che un “perché” in effetti non c’è.
Ma con calma racconterò tutto per filo e per segno.
Non so se sarà mai capitato a chi legge di aver provato, o per lo meno di aver sentito parlare di un’ossessione. Un pensiero fisso, un tarlo che vi entra in testa e non se ne va mai più.
Inizialmente è solo una idea piccola piccola. Quasi un esile argomento da inserire in una conversazione già avviata, ma una volta finita la conversazione, non so per quale motivo, se ne rimane lì, in un angolino del nostro cervello, e inizia a lievitare. Piano Piano. Ti capita di ripensare alla conversazione e di aggiungere qualche particolare che i conversanti avevano omesso. Poi l’immagine si fa sempre più reale, finché ad un tratto cominci a sentire la voglia di provare. Di sperimentare.
Ed ecco che subentra la curiosità. Quella curiosità che ci ha fatto scoprire il fuoco, che ci ha fatto inventare la ruota, le navi e i treni. Quella curiosità che ci ha portati sulla Luna e presto ci porterà anche su Marte.
La curiosità che è insita nell’essere uomo, ciò che ci distingue dagli altri animali, ciò che ci fa fare cose senza alcun motivo apparente. L’unico motivo è quello di vedere l’effetto che fa. Di provare sensazioni nuove, mai sperimentate appunto. Ma per noi esseri umani quel motivo è più che sufficiente per giustificare gran parte delle nostre azioni ed è proprio questo che ci ha fatto fare grandi cose.
Fin da bambini andiamo in giro per il mondo, gattonando, alla ricerca di qualcosa che possa stuzzicare la nostra curiosità. Poi impariamo a camminare, e in quasi tutti, la curiosità viene sostituita da un ligio senso del dovere che ci costringe a trovare un lavoro fisso, a guadagnare, ad essere indipendenti dai genitori, dal mondo.
Ma in alcuni la curiosità non se ne va. Rimane in diverse misure. A qualcuno ne resta poca e lo rende un semplice appassionato delle cose, un hobbista. A qualcuno ne resta tanta e finisce per diventare scienziato, uno scopritore, uno dei pochi che tengono in mano i remi del mondo e lo sospingono avanti e avanti. Infine, ad alcuni ne resta troppa, e diventano pazzi. Scienziati pazzi, o peggio.
La mia ossessione ha trovato il suo germe proprio durante una conversazione in famiglia, a un pranzo di Natale o di qualche altra festività, poco importa. Quella volta la discussione non era finita in politica, con le solite bastonate da destra e da sinistra come al solito. Quella volta si parlava di libri e di film.
Ad un tratto qualcuno mise in tavola una conversazione alquanto macabra, ma interessante.
Chissà cosa si prova ad uccidere una persona?
Ricordo bene che i più anziani, quelli che qualche maiale o qualche gallina li avevano uccisi, la liquidarono semplicemente con un “sarà circa come ammazzare un animale…”.
Certo ridemmo tutti, ma io provai una sensazione strana: quella risposta mi aveva lasciato insoddisfatto.
La conversazione finì, la cena finì e con loro anche la serata.
Quando fui a letto e il sonno iniziò ad allontanarmi dal mondo, quel pensiero si ripresentò nella mia mente. Pensai a come dev’essere uccidere un animale, io in effetti non l’avevo mai fatto. Chissà con cosa lo si potrebbe uccidere? E soprattutto quale animale? Una gallina è semplice: basta metterle la testa sotto un bastone e tirare per i piedi. Ma cosa si sente di preciso quando il collo si rompe? Che effetto fa nelle mani quando le vertebre cervicali dell’animaletto cedono alla trazione e si allontanano le une dalle altre provocando la sua morte?
In una gallina però non si riesce ad apprezzare la paura. Si svolazza e cerca di liberarsi dalla presa, ma non si possono vedere gli occhi impauriti dell’animale quando capisce il suo destino. Probabilmente la gallina non capisce il suo destino. Muore e basta.
Allora serve un animale più grande. Per esempio un maiale. Certo, un maiale, lui si è abbastanza grande per vedere il suo viso quando lo si ammazza. Chissà come dev’essere tenere in mano quella pistola, premere il grilletto, sentire un leggero contraccolpo nella mano e vederlo cadere morto.
Ormai la curiosità mi tormenta. Poi si sente raccontare che alcune di quelle povere bestie si rendono conto di cosa sta succedendo e si fermano terrorizzate. Ovvio: non vogliono morire. Allora forse uccidere un maiale è circa come uccidere una persona?
Con quel dubbio conficcato nel cervello il giorno seguente mi recai al più vicino macello. Chiesi informazioni al macellaio su quale fosse il maiale più “intelligente” che avevano in programma di ammazzare e chiesi di poter essere io il suo carnefice, per una sorta di studio scientifico.
Mi venne spiegato precisamente come si fa e come funzionano tutti gli attrezzi e mi preparai, vestito com’ero sembravo un chirurgo.
Avevo quella pistola in mano, fremevo. L’ansia cominciava a salirmi dal cuore ai polmoni, fino alla gola. La mia mano sudava. Ed ecco il maiale spuntare trascinato a forza da due inservienti. Appena mi vide e fiutò l’odore del sangue dei suoi amici che erano venuti prima si puntò sulle zampe davanti e non si mosse. Il macellaio mi disse di avvicinarmi al maiale e di fare esattamente come lui mi aveva insegnato.
“Un colpo secco e non ci si pensa più”, mi disse.
Ci avvicinammo.
Il maiale era lì, ansimante, terrorizzato. Come da copione aveva capito tutto.
Avvicinai la pistola alla sua fronte, con la mano tremante.
In quel preciso istante non so cosa mi accadde, mi girai, puntai la pistola sulla fronte del macellaio, attesi finché i suoi occhi non mi confermarono che aveva capito tutto e premetti il grilletto. Lui cadde, come da copione. Il corpo si distese. La vita se ne andò. Purtroppo non so descrivere cosa provai. Svenni.
Mi ritrovai in tribunale e il resto lo sapete.
Così finì quel giorno di Pasquetta, scoprii finalmente cosa si prova ad ammazzare una persona.
Ora sono qua in questa cella e non ho nulla da fare o da pensare.
Non ho nessuno che possa impiantare nel mio cervello nuovi dubbi pericolosi, anche se penso che ormai io non potrò più essere troppo pericoloso per gli altri dentro a queste quattro mura.
Appena finito di scrivere queste quattro righe andrò a coricarmi per riposare un poco, ma sento che un nuovo dubbio sta affiorando alla mia mente: Chissà cosa provavano i condannati morire impiccati?
***


sabato 11 aprile 2020

La volpe del vecchio Tony


La volpe del vecchio Tony

Il vecchio Tony era un truffatore, un imbroglione. Non un ladro di quelli che smontano le finestre e aprono le casseforti, non un rapinatore. Si può essere un truffatore anche senza il passamontagna e la pistola. Lui infatti era uno di quelli, come ce ne sono tanti, che abitualmente imbrogliano le persone per trarne vantaggio, ma senza infrangere la legge. Senza rischiare di finire in galera.
Da qualche tempo il bosco e la campagna che circondano il paese erano sovrappopolati dalle volpi, le quali, non trovando nulla da mangiare, si spingevano fino alle case di periferia e rubavano le galline dai pollai. Questo fenomeno cominciava a diventare un problema: i pollai erano sotto assedio e i contadini, deliranti, non sapevano più come fare per porvi rimedio.
Ben presto i cacciatori cominciarono a dare la caccia a queste volpi. Chi ne catturava una girava per un giorno intero con la volpe morta su una spalla e i paesani lo invitavano per regalargli uova, prosciutti o farina come premio per aver catturato quell’odioso animale.
Il vecchio Tony, un giorno, non si sa bene in che modo, ebbe la fortuna di catturare una volpe. Iniziò subito la sua processione: con le spoglie dell’animale ancora calde sulle spalle fece il giro del paese e guadagnar premi per la sua vittoria. Quando tornò a casa era talmente carico di ogni ben di Dio che non dovette neppure andare a fare la spesa per il giorno seguente. fu così che gli balenò in mente la terribile idea. Quell’idea che forse anche altri avevano avuto, ma forse nessuno aveva ancora messo in atto. Quell’idea che di lì a poco gli sarebbe costata la vita.
Il giorno successivo lo lasciò passare meditante, ma il secondo giorno dall’uccisione della volpe si rimise in spalla l’animale e ripartì nel suo giro per il paese dicendo di averne catturata un’altra. E anche quel giorno riuscì a riempire la dispensa.
Ovviamente né io né gli altri ragazzi del paese potevamo credere che davvero quel vecchio ubriacone fosse riuscito a catturare due volpi, così, dopo il terzo giorno che lo vedemmo circolare con l’animale sulla spalla decidemmo di intrufolarci nel suo garage per andare a controllare.
Quella sera la cantina era deserta: il vecchio rimaneva ad importunare i camerieri della taverna fino a tarda notte. C’erano poche bottiglie piene e molte bottiglie vuote, una mezza dozzina di uova, un prosciutto e qualche pezzetto di formaggio chiuso in un baule nella speranza di tenere fuori i topi. In un angolo c’era un grande baule che poteva contenere tranquillamente due persone una accanto all’altra. A giudicare dall’odore che emanava doveva essere quello il sarcofago della povera volpe morta. La trovammo e la scambiammo con una volpe viva. Non ricordo se trovammo più difficoltà nello scovare e catturare una volpe viva o nel rinchiudere la stessa volpe dentro a quel baule che sapeva di morte, ma eravamo sicuri che il giorno seguente ci saremmo divertiti.
Non potevamo assolutamente conoscere le terribili conseguenze che quello scherzo portava con sé, quindi finimmo l’opera e andammo a dormire.
Il giorno seguente, come da copione, il vecchio Tony andò in cantina per prendere il suo morto trofeo di guerra e andarsene in giro per il paese a riscuotere la ricompensa, ma invece che un trofeo morto trovò un trofeo vivo! Trovò la nostra volpe viva!
La poveretta dopo una intera notte passata nel sarcofago della sua sorella morta pensò bene di darsela a gambe il più velocemente possibile, e, balzando fuori dal sarcofago, non si lasciò scappare l’occasione di conciare il povero Tony per le feste.
Quando arrivò in paese non so dire se fosse più sconvolto per i graffi e le ferite provocategli dall’animale o dal terribile ma affascinante miracolo che era capitato la notte nella sua cantina. Ovviamente si mise a raccontarlo in lungo e in largo e in men che non si dica tutto il paese era ben informato sulla vicenda del miracolo. Ovviamente i paesani non si curarono minimamente del fatto che per una settimana li avesse fregati tutti con la volpe morta che era sempre la stessa, e iniziarono all’istante ad osannarlo come il possessore del “Baule del Miracolo”. Il baule che faceva resuscitare i morti!
Ovviamente un miracolo che si rispetti deve essere ripetuto qualche volta ancora, quindi i paesani non persero un attimo di tempo e portarono al vecchio prima un canarino, poi due galline e infine un cane.
Fu davvero una gran fatica trovare i gemelli esatti di quegli animali morti ed andarli a sostituire notte per notte nel “Baule del miracolo” senza che nessuno se ne accorgesse. Ma la fatica non era vana! Era così divertente alimentare in quegli idioti una credenza così surreale. Talmente impossibile che ancora oggi mentre scrivo non capisco come potessero crederci così stupidamente alla storia del miracolo.
Ma questa magia durò poco. Molto poco.
Una mattina infatti il vecchio Tony non arrivò all’osteria.
Sapendo che, sebbene fosse molto abitudinario, certe mattine se non aveva voglia di uscire se ne rimaneva a letto, nessuno si mise a cercarlo fino a sera.
Con il far della sera però i dubbi cominciarono a salire nelle menti dei frequentatori dell’osteria: anche se fosse cascato il mondo il vecchio Tony non sarebbe mai mancato alla sera all’osteria, ad importunare le cameriere.
Cominciarono le prime ricerche: al bosco, all’orto, in giro nei campi, in ogni dove. Del vecchio Tony non c’era traccia alcuna. Le ricerche si protrassero per tutta la notte e anche per il giorno seguente senza dare alcun frutto, finche non mi assalì un dubbio terribile. All’inizio quasi una fantasia data dall’inutile ricerca durata due giorni, poi un pensiero fisso e infine un’ossessione. Ero terrorizzato da quello che mi stava passando per la mente, talmente impaurito che non riuscivo a parlarne con nessuno. Non era tanto il timore di essere giudicato matto che mi congelava, quanto il timore di poter scoprire che quel tarlo che portavo in testa potesse essere affine alla realtà, che i miei sospetti potessero rivelarsi fondati!!!
Non potevo più aspettare, ero terrorizzato dall’idea di aver ucciso una persona e volevo che qualcuno andasse a verificare che i miei dubbi non fossero effettivamente fondati, che quello che pensavo fosse solamente una fantasticheria prodotta dall’insonnia.
Ne parlai con i miei amici, ci facemmo coraggio e, tutti quanti bianchi di paura ci recammo al “Baule del miracolo”.
Nessuno aveva il coraggio di aprirlo, restammo lì almeno un paio d’ore, quasi in uno stato di trans da paura. In fine io crollai e con uno scatto sollevai il coperchio.
Il vecchio Tony giaceva lì dentro, bianco, morto. Aveva in una mano una fiala di veleno e nell’altra una lettera. La aprimmo, leggemmo le prime parole e svenni.

“ Amici, paesani, arrivederci! Parto per un viaggio nell’aldilà. Da sempre ho desiderato esplorare il mondo dei morti ma mai mi era capitata finora la possibilità di andare e tornare, come si fa quando si va in vacanza. Mi sdraio in questo baule del miracolo, che sarà la mia zattera per il ritorno dal regno dei morti e bevo questo veleno che sarà invece il treno d’andata, verso il regno dei morti. Vi prego solo di non essere troppo in pensiero per me e di non rimuovere il mio corpo da questo baule finché non sarò tornato fra voi. Amici, paesani, arrivederci!”
* * *




La piccola casa all'angolo

La piccola casa all’angolo

Nella piccola casa all’angolo non c’erano luci accese. La sola fiamma del camino illuminava la sala da pranzo e proiettava la sua luce fino alla cucina adiacente. 
Da una settimana ormai non si accendeva una luce, da quando il buon padre di Teresa non era riuscito a pagare la compagnia elettrica e quelli avevano tagliato i fili della corrente. Sì, il buon padre aveva perso il lavoro un mese prima, quando il cantiere della linea ferroviaria che arrivava nella cittadina era stato terminato e non servivano più i muratori. 
Da allora si affannava alla ricerca di un nuovo impiego ma nessuno lo voleva: l’età cominciava a farsi sentire e i quattro figli da crescere non gli lasciavano neppure il tempo per lavarsi il viso. 
La mamma era fuggita qualche anno prima in preda alla pazzia dopo aver dato alla luce il più piccolo dei quattro e da allora non si avevano più notizie di lei e dei suoi spostamenti. 
Teresa aveva un ragazzo. Conosciuto due anni prima alla scuola del quartiere, avevano deciso di sposarsi non appena finiti gli studi. Quando il papà di Teresa era stato licenziato però, il generoso ragazzo era partito con una squadra di carpentieri per guadagnare qualche soldo col quale aiutare Teresa e la sua famiglia e da ormai un anno e tre mesi era lontano da casa. 
Da una settimana non c’era più luce in quella casa e le tenebre e il freddo l’avevano invasa. Il piccolino, che aveva quasi cinque anni, rischiava di ammalarsi gravemente perché la sua stanza era la più fredda della casa e il ghiaccio aveva completamente ricoperto la finestra anche all’interno. Per questo per lui era stata preparata una brandina nella sala da pranzo, l’unica riscaldata dal camino sempre acceso. 
Il padre rimaneva fuori casa per l’intera giornata e rincasava spesso dopo il tramonto. A volte era evidente che prima di rientrare fosse passato alla taverna e avesse annegato nel vino l’ennesima domanda di lavoro rifiutata. Queste per Teresa erano le sere più complicate: oltre ai tre fratelli, per i quali era diventata madre a tutti gli effetti, doveva preoccuparsi anche di mettere a letto il padre. Compito ingrato che le riempiva il cuore di pena per quell’uomo a cui la vita aveva dato tanta sofferenza. 
Teresa era una ragazza forte e sapeva mandare avanti la casa e tenere da parte qualche ora per studiare. Le mancava ormai solo un anno di scuola e non era assolutamente intenzionata ad arrendersi. Il grande camino, acceso giorno e notte era ormai l’unica fonte di vita per la piccola casa all’angolo ma divorava legna a più non posso e la giovane Teresa doveva passare spesso anche più di un pomeriggio al bosco per procurarsi la legna con cui alimentarlo.
L’inverno era calato in anticipo e la prima neve aveva sorpreso le ultime foglie ancora sugli alberi. si stava fabbricando un cappotto, ma anche lei come le foglie era stata sorpresa dalla neve e non lo aveva ancora terminato. D’altra parte il camino continuava a divorare legna e la catasta cominciava a scarseggiare. 
Teresa fu costretta ad avventurarsi nel bosco col solo vestitino che possedeva, senza il cappotto che l’avrebbe riparata dal freddo. Continuava a ripetersi: «coraggio piccola mia, la legna scalda sempre due volte: quando la si taglia e quando la si mette nel camino.» Ma quel pomeriggio la legna non scaldava affatto. Oppure il freddo era più freddo del solito. In ogni caso quando Teresa fece ritorno a casa era mezza assiderata e tutta tremante dalla testa ai piedi. 
Passò qualche ora davanti al camino a leggere gli appunti che le rimanevano per quel giorno, ma alla sera, finito di riordinare la cucina, sentì che qualcosa in lei non andava. Si portò una mano alla fronte e la trovò rovente come il ferro su cui il fabbro batte tutto il giorno e immediatamente si sentì mancare. Non poteva assolutamente ammalarsi! Chi avrebbe mandato avanti la piccola casa all’angolo se lei si fosse ammalata? Chi avrebbe accudito i piccoli fratelli nelle lunghe ore del giorno quando il padre non era a casa, e chi avrebbe accudito lei stessa, inchiodata al letto in preda ai tormenti della febbre? E soprattutto, chi avrebbe sposato il povero ragazzo se di ritorno dal lavoro lontano l’avesse trovata composta nel letto di morte? 
Con questo prima di altri mille pensieri in testa scrisse un telegramma al suo fidanzato chiedendogli di tornare al più presto e lo affidò al maggiore dei suoi fratellini con gli ultimi soldi che le erano rimasti perché corresse a spedirlo, si mise addosso i quattro stracci che stavano prendendo ormai le sembianze di un cappotto e andò a coricarsi nella sua camera.
«Torna presto, muoio» era il testo del telegramma che il giorno seguente raggiunse il ragazzo sul luogo di lavoro. Lui non perse un secondo, salutò i colleghi e senza nemmeno passare dall’alloggio corse alla stazione a prendere il primo treno. 
Il viaggio di andata era durato cinque giorni, ma con la nuova ferrovia e con un po’ di fortuna in tre giorni sarebbe stato a casa dalla povera e morente Anna. 
Prima di salire sul treno scrisse un telegramma in cui chiedeva aggiornamenti e dava indicazioni sul luogo al quale inviare la risposta. Allegava anche alcuni soldi per permettere ad Teresa di scrivergli la risposta.
Il treno fischiava nella nebbia e nella neve di quelle giornate invernali, e al suo interno il futuro marito di Teresa pensava ai più bei momenti che aveva passato con lei. Il ricordo di quella giornata al mare, del viso sorridente di lei circondato dai capelli ancora bagnati, non lo avevano abbandonato per un solo giorno di quei lunghi diciassette mesi passati lontano da casa. La voglia di rivederla, di risentire il calore dei suoi sguardi di rivedere quei riccioli lucenti e quelle labbra delicate, di risentire i suoi lunghi discorsi su chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, di fantasticare insieme a lei della loro povera ma felice vita insieme lo avevano sorretto e sospinto ad andare avanti in quei diciassette lunghi mesi di lavoro durissimo e sfiancante. 
Aveva anche guadagnato una modesta somma di denaro che gelosamente custodiva cucita all’interno della giacca e con la quale avrebbe garantito da vivere a lui e ad Teresa finché non avesse trovato un nuovo lavoro in città. 
Ma di tanto in tanto gli tornava alla mente il pensiero del telegramma. Cosa era accaduto a Teresa? Perché chiedeva il suo aiuto così insistentemente e all’improvviso? Era forse gravemente malata o peggio si era ferita? Attendeva con ansia agghiacciante il telegramma alla stazione successiva e intanto pregava. 
Pregava di avere ancora la possibilità di usare quel denaro per procurar da vivere ad Teresa e alla sua famiglia. Pregava di non dover usare quel denaro per comprare una bara e una lapide alla sua amata. Fremeva al semplice e terribile pensiero di non poter far nulla intanto che la malattia consumava lentamente la vita di lei e i loro sogni di felicità. 
E aveva paura, una paura sempre più forte sempre più opprimente: aveva paura di non arrivare neppure in tempo per vederla un’ultima volta.
Lo scossone dello scambio lo svegliò, alla stazione si precipitò all’ufficio delle poste e dei telegrafi alla ricerca di un messaggio di vita, trovò un messaggio di morte: «Fa’ presto, la febbre sale, muoio.» Ora almeno sapeva che cosa stesse accadendo nella piccola casa all’angolo, Teresa stava consumando la sua ultima vita tra le fiamme della febbre e non era accudita da nessuno.
Non c’era tempo da perdere ma il treno non ripartiva. Le normali operazioni di rifornimento della motrice sembravano ora durare un’eternità. 
Per ammazzare il tempo che doveva ancora attendere il povero ragazzo corse alla farmacia a comprare qualche medicinale col quale sperava di acciuffare la vita di Teresa e di tirarla fuori dalla fossa. 
Tornò che il treno fischiava la partenza. Salì e poco dopo, sopraffatto dall’angoscia e dalla fatica del viaggio cadde in un sonno profondo.
Quando si svegliò il treno era in stazione e i passeggeri erano quasi scesi tutti. 
Sulla banchina trovò il maggiore dei fratellini che, con gli occhi consumati dal pianto, gli disse che era stato mandato da Teresa ad attenderlo alla stazione e che portava con sé gli ultimi saluti della sorella. 
Teresa infatti non sapeva se sarebbe rimasta su questa terra a sufficienza per vedere arrivare il suo ragazzo e aveva affidato i suoi ultimi pensieri al fratellino che li aveva scritti sotto dettatura in un biglietto. Il ragazzo non volle leggere il biglietto per timore di perdere tempo e si precipitò col fratellino verso la piccola casa all’angolo.
Quando arrivarono trovarono davanti alla casa gli altri due fratelli in silenzio e col capo chino. Nessuno si muoveva. 
Il ragazzo chiese di vedere Teresa ma non ottenne risposta. 
Sembravano statue piangenti, non avevano il coraggio di muoversi per non cadere a terra sopraffatti dal dolore. 
Il ragazzo allora entrò e raggiunse la camera, aprì silenziosamente la porta e la vide là, ferma, immobile, ad occhi chiusi, composta, morta. 
Non era arrivato in tempo, la povera Teresa se ne era andata qualche minuto pima, con solo i due fratellini a vegliare su di lei, senza poterlo rivedere nemmeno per un minuto. E lui non aveva potuto vedere la sua Teresa viva nemmeno per un minuto. Dei suoi discorsi intelligenti e allegri gli rimaneva solo un piccolo frammento che stringeva tra le mani, in quel bigliettino scritto con la grafia da elementari del fratello maggiore.
***



In quel preciso istante aprii di soprassalto gli occhi. La guardai, era lì di fianco a me, completamente rilassata, dormiva. In un attimo pensai a quanto fosse bella, a quanto la amassi, la mia Teresa. Ripensai al terribile sogno che avevo avuto e mi girai. La radiosveglia segnava le 7:27. Tra tre minuti si sarebbe messa a suonare e ci avrebbe restituiti alla vita. Avrebbe dato inizio al giorno più bello della nostra vita: il giorno del nostro matrimonio!