Un Giorno di Pasqua
“Buona Pasqua”.
L’ho sentito ripetere almeno cento volte, dalle guardie che
smontano dal turno alle guardie che prendono il loro posto.
Certo, per i primi è proprio il caso di dirlo, buona Pasqua,
loro stanno andando a casa. Ma come possono augurare buona Pasqua alle guardie
che invece rimangono qua? Loro passeranno la Pasqua chiusi qua dentro, come
noi.
Questo giorno, che qualcuno definisce “santo”, per loro come
per noi sarà un giorno come tutti gli altri. Ma che colpa hanno loro? Siamo noi
i carcerati, i relitti della società civile, coloro che non possono avere una
vita nemmeno il giorno di Pasqua. Loro, le guardie, non hanno fatto niente di
male. L’unica colpa che si può imputare loro è quella di avere scelto il
mestiere sbagliato: la guardia carceraria.
Ma non è questo il vero motivo per cui ho deciso di
scrivere, non è una denuncia contro le pessime condizioni di lavoro di chi ci
fa la guardia. Voglio confidare a questo piccolo foglio di carta il vero motivo
per cui sono qua dentro.
Anche al processo, in cui mi giudicarono colpevole, non
dissi mai il vero motivo del mio terribile delitto. Non fu la vergogna a
togliermi le parole, o tutti quegli sguardi pieni d’odio che sentivo rivolti su
di me. No, non fu tutto questo a impedirmi di snocciolare il motivo. La ragione
per cui non risposi alla domanda sul perché di tanta crudeltà è che un “perché”
in effetti non c’è.
Ma con calma racconterò tutto per filo e per segno.
Non so se sarà mai capitato a chi legge di aver provato, o
per lo meno di aver sentito parlare di un’ossessione. Un pensiero fisso, un
tarlo che vi entra in testa e non se ne va mai più.
Inizialmente è solo una idea piccola piccola. Quasi un esile
argomento da inserire in una conversazione già avviata, ma una volta finita la
conversazione, non so per quale motivo, se ne rimane lì, in un angolino del
nostro cervello, e inizia a lievitare. Piano Piano. Ti capita di ripensare alla
conversazione e di aggiungere qualche particolare che i conversanti avevano
omesso. Poi l’immagine si fa sempre più reale, finché ad un tratto cominci a
sentire la voglia di provare. Di sperimentare.
Ed ecco che subentra la curiosità. Quella curiosità che ci
ha fatto scoprire il fuoco, che ci ha fatto inventare la ruota, le navi e i
treni. Quella curiosità che ci ha portati sulla Luna e presto ci porterà anche
su Marte.
La curiosità che è insita nell’essere uomo, ciò che ci
distingue dagli altri animali, ciò che ci fa fare cose senza alcun motivo
apparente. L’unico motivo è quello di vedere l’effetto che fa. Di provare
sensazioni nuove, mai sperimentate appunto. Ma per noi esseri umani quel motivo
è più che sufficiente per giustificare gran parte delle nostre azioni ed è
proprio questo che ci ha fatto fare grandi cose.
Fin da bambini andiamo in giro per il mondo, gattonando,
alla ricerca di qualcosa che possa stuzzicare la nostra curiosità. Poi
impariamo a camminare, e in quasi tutti, la curiosità viene sostituita da un
ligio senso del dovere che ci costringe a trovare un lavoro fisso, a
guadagnare, ad essere indipendenti dai genitori, dal mondo.
Ma in alcuni la curiosità non se ne va. Rimane in diverse
misure. A qualcuno ne resta poca e lo rende un semplice appassionato delle
cose, un hobbista. A qualcuno ne resta tanta e finisce per diventare
scienziato, uno scopritore, uno dei pochi che tengono in mano i remi del mondo
e lo sospingono avanti e avanti. Infine, ad alcuni ne resta troppa, e diventano
pazzi. Scienziati pazzi, o peggio.
La mia ossessione ha trovato il suo germe proprio durante
una conversazione in famiglia, a un pranzo di Natale o di qualche altra
festività, poco importa. Quella volta la discussione non era finita in
politica, con le solite bastonate da destra e da sinistra come al solito.
Quella volta si parlava di libri e di film.
Ad un tratto qualcuno mise in tavola una conversazione
alquanto macabra, ma interessante.
Chissà cosa si prova ad uccidere una persona?
Ricordo bene che i più anziani, quelli che qualche maiale o
qualche gallina li avevano uccisi, la liquidarono semplicemente con un “sarà
circa come ammazzare un animale…”.
Certo ridemmo tutti, ma io provai una sensazione strana:
quella risposta mi aveva lasciato insoddisfatto.
La conversazione finì, la cena finì e con loro anche la
serata.
Quando fui a letto e il sonno iniziò ad allontanarmi dal
mondo, quel pensiero si ripresentò nella mia mente. Pensai a come dev’essere
uccidere un animale, io in effetti non l’avevo mai fatto. Chissà con cosa lo si
potrebbe uccidere? E soprattutto quale animale? Una gallina è semplice: basta
metterle la testa sotto un bastone e tirare per i piedi. Ma cosa si sente di
preciso quando il collo si rompe? Che effetto fa nelle mani quando le vertebre
cervicali dell’animaletto cedono alla trazione e si allontanano le une dalle
altre provocando la sua morte?
In una gallina però non si riesce ad apprezzare la paura. Si
svolazza e cerca di liberarsi dalla presa, ma non si possono vedere gli occhi
impauriti dell’animale quando capisce il suo destino. Probabilmente la gallina
non capisce il suo destino. Muore e basta.
Allora serve un animale più grande. Per esempio un maiale. Certo,
un maiale, lui si è abbastanza grande per vedere il suo viso quando lo si
ammazza. Chissà come dev’essere tenere in mano quella pistola, premere il
grilletto, sentire un leggero contraccolpo nella mano e vederlo cadere morto.
Ormai la curiosità mi tormenta. Poi si sente raccontare che
alcune di quelle povere bestie si rendono conto di cosa sta succedendo e si
fermano terrorizzate. Ovvio: non vogliono morire. Allora forse uccidere un
maiale è circa come uccidere una persona?
Con quel dubbio conficcato nel cervello il giorno seguente
mi recai al più vicino macello. Chiesi informazioni al macellaio su quale fosse
il maiale più “intelligente” che avevano in programma di ammazzare e chiesi di
poter essere io il suo carnefice, per una sorta di studio scientifico.
Mi venne spiegato precisamente come si fa e come funzionano
tutti gli attrezzi e mi preparai, vestito com’ero sembravo un chirurgo.
Avevo quella pistola in mano, fremevo. L’ansia cominciava a
salirmi dal cuore ai polmoni, fino alla gola. La mia mano sudava. Ed ecco il
maiale spuntare trascinato a forza da due inservienti. Appena mi vide e fiutò
l’odore del sangue dei suoi amici che erano venuti prima si puntò sulle zampe
davanti e non si mosse. Il macellaio mi disse di avvicinarmi al maiale e di
fare esattamente come lui mi aveva insegnato.
“Un colpo secco e non ci si pensa più”, mi disse.
Ci avvicinammo.
Il maiale era lì, ansimante, terrorizzato. Come da copione
aveva capito tutto.
Avvicinai la pistola alla sua fronte, con la mano tremante.
In quel preciso istante non so cosa mi accadde, mi girai,
puntai la pistola sulla fronte del macellaio, attesi finché i suoi occhi non mi
confermarono che aveva capito tutto e premetti il grilletto. Lui cadde, come da
copione. Il corpo si distese. La vita se ne andò. Purtroppo non so descrivere
cosa provai. Svenni.
Mi ritrovai in tribunale e il resto lo sapete.
Così finì quel giorno di Pasquetta, scoprii finalmente cosa
si prova ad ammazzare una persona.
Ora sono qua in questa cella e non ho nulla da fare o da
pensare.
Non ho nessuno che possa impiantare nel mio cervello nuovi
dubbi pericolosi, anche se penso che ormai io non potrò più essere troppo
pericoloso per gli altri dentro a queste quattro mura.
Appena finito di scrivere queste quattro righe andrò a
coricarmi per riposare un poco, ma sento che un nuovo dubbio sta affiorando
alla mia mente: Chissà cosa provavano i condannati morire impiccati?
***